Il feroce mito della Grande Guerra

In questi mesi di celebrazione del centenario dell’ingresso dell’Italia nel primo conflitto mondiale, l’aria si è fatta alquanto pesante, caricata da discorsi e immagini improntati allo sciovinismo e alla retorica patriottarda più svergognata.

Le televisioni trasmettono fiction, documentari e film sulle trincee, riecheggiano le strofe della Canzone del Piave. Tutto questo dispiegarsi della memoria ha evidentemente un fine politico, nemmeno troppo nascosto: quello della “concordia”, dell’unità nazionale. Per fare leva su questo discorso, va da sé, occorre maneggiare con particolare attenzione il ricordo di un evento che, nella memoria collettiva, non è più recuperabile senza una formale deplorazione dell’ “inutile strage”. Dopotutto, la Grande guerra è l’avvenimento che apre il Novecento, il secolo «oggi dipinto come un mattatoio, una strage indiscriminata, un bagno di sangue senza fine», e non come «il tempo in cui più si è ridotta la forbice tra chi ha e chi non ha», come afferma giustamente Daniele Giglioli nel suo saggio Critica della vittima (1).

Eppure, esistono sempre dei discorsi in grado di dirottare una severa e giusta critica della guerra in quanto tale, e dirigerla verso acque più tranquille e prese di posizione più tollerate dall’ideologia dominante. Si dirà, ad esempio, che la colpa di oltre mezzo milione di caduti al fronte italiano è da addebitarsi a un’infame e insipiente condotta di generali come Luigi Cadorna. Oppure, si dirà che quel massacro era in fondo inevitabile, rispolverando il vecchio motivo della “quarta guerra d’indipendenza” per la riacquisizione delle “terre irredente” di Trento e Trieste – rimuovendo il fatto che, finita la guerra, l’Italia si annesse molti territori mistilingui e non popolati da italiani. Entrambe queste giustificazioni convivono in prodotti televisivi come quello andato in onda su Rai Uno la sera del 24 maggio: si tratta della docu-fiction “Fango e gloria”.

La vicenda raccontata tratta, in modo finzionale, della storia del soldato italiano morto in battaglia il cui corpo non identificato venne scelto per essere tumulato nella tomba del Milite Ignoto. Prescindendo dalla sua realizzazione tecnica – piuttosto mediocre, dai dialoghi alla costruzione dei personaggi – la fiction ripropone, come si è detto, esattamente la vulgata nazionalistica perfetta per questi tempi: “La guerra è orribile, ma è un dovere verso il nostro paese farla”, così afferma il protagonista del film. A ciò si accompagnano rimozioni non indifferenti, come la firma del Patto di Londra, apposta in segreto dal governo Salandra, con la quale l’Italia scendeva in guerra con la Triplice Intesa contro gli alleati trentennali della Triplice Alleanza (2).

Nel complesso, “Fango e gloria” rimane la versione tele-cinematografica della celebrazione del culto dei caduti, cui lo storico George L. Mosse ha dedicato un importante saggio (3). In esso, Mosse afferma che la monumentalizzazione, come nel caso della tomba del Milite Ignoto, fa parte di un’operazione che fonda una comunità attraverso il “Mito dell’Esperienza di Guerra”. Il soldato caduto, senza nome, che rappresenta tutti i soldati morti, rappresenta, a un tempo, la morte e la resurrezione della nazione: l’orrore della guerra viene trasceso dal mito di una patria in grado di rinascere più forte. In questo modo, gli aspetti più cruenti e orrorifici dell’esperienza bellica vengono depurati, e chi sceglierà di combattere le guerre di domani lo farà nel segno del sacrificio per la nazione. Non c’è bisogno di evidenziare troppo quanto questa vera e propria religione della morte sia stato bacino ideologico cui i fascismi hanno attinto a piene mani.

Ancora oggi si rende necessario un vittimismo spinto – sia in quanto atteggiamento deresponsabilizzante, sia in quanto culto delle vittime – per cementare altri usi ideologici del mito. La stessa Canzone del Piave, riproposta fino alla nausea in questi giorni, ne è intrisa fin dai suoi primi versi: si parla dell’esercito in marcia, durante il celebre 24 maggio, per “far contro il nemico una barriera”, come se si trattasse di una manovra difensiva, quando fu l’Italia a dichiarare guerra all’impero austro-ungarico e a vestire i panni dell’invasore. Proprio il verso che chiude la prima strofa – “Non passa lo straniero” – è diventato lo slogan rilanciato da Fratelli d’Italia e Lega per le celebrazioni del centenario sul Piave. Facile cogliere l’effetto di senso che questa frase ha su chi ha come riferimento politico quei partiti, specie in questi giorni in cui l’operazione in Libia contro gli sbarchi dei migranti si fa sempre più vicina – fatta sempre nel nome delle “vittime del Mediterraneo”. Per questo motivo, bisogna ribadire con forza che il mito della grande guerra, nucleo di molti miti bellici operanti ancora oggi, è mortifero, e che la nazione, è vero, è un edificio i cui mattoni sono fatti di “suolo e sangue”: così è stato tra il 1914 e il 1918, quando milioni di persone hanno impastato il proprio con il fango delle trincee, per combattere una guerra voluta dalle potenze imperialiste d’Europa. Perché non sia più accettabile il discorso guerrafondaio, soprattutto oggi, bisogna alzare la voce e affermare con forza che ogni conflitto tra nazioni, parafrasando Brecht, è la rovina di chi sopravvive a una pace fatta di sfruttamento e miseria quotidiana, la pace dell’ordine esistente.

*Noi Restiamo

Note:
(1) D. Giglioli, Critica della vittima, Roma, Nottetempo, 2014, p.21.
(2) il cui trattato venne stipulato nel 1882 a Vienna.
(3) G. L. Mosse, Le guerre mondiali. Dalla tragedia al mito dei caduti, Laterza