Quei pazzi uomini della pubblicità – Mad Men (recensione)

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Coca Cola. Il primo e il più iconico dei marchi delle grandi multinazionali che, in verità, non produce che una bevanda, a cui i suoi proprietari hanno saputo costruire un’aurea di vera magia.

È con la pubblicità più famosa degli anni ’70, in cui tanti ragazzi di diverse etnie cantano di pace e bellezza e coca cola nel mondo (girata tra l’altro a Roma), che si conclude una serie televisiva epocale: Mad Men.

Il finale chiude tutte le storie dei personaggi (almeno quelli sopravvissuti) che abbiamo conosciuto otto anni fa nel piccolo – per quanto già prestigioso – ufficio pubblicitario Sterling&Cooper nella celebre Madison Avenue, da cui il gioco di parole coniato dagli stessi pubblicitari per definirsi.

Meglio, più che una chiusura è un nuovo inizio, dato dalla svolta dell’ennesima acquisizione dell’agenzia da parte di una molto più grande, la effettivamente esistente McCann. Acquisizione che appare in effetti come una sconfitta collettiva, in quanto quest’ultima volta i personaggi non riescono a difendere la loro autonomia come avevano già fatto in passato in maniera appunto corale, e che ciascuno risolve in maniera individuale; senza distribuire a destra e a manca vittorie e sconfitte, il creatore Matthew Weiner fa effettuare delle scelte che aprono delle possibilità accettando delle rinunce, senza concedersi nessun giudizio sulle sue creature, come dimostra la dualità dei finali di Joan a Peggy: la prima rinuncerà in maniera drastica a una nuova relazione per buttarsi in una nuova impresa, mentre dall’altra la seconda rinuncerà a diventarle socia per mantenere il suo posto alla più sicura McCann e iniziare la sua storia d’amore aziendale. Solo Betty, ex-moglie del protagonista Don Draper, sembra avere una fine negativa a causa della diagnosi di un tumore ai polmoni che sembra renderla l’unica vittima espiatoria di migliaia di sigarette fumate da tutti, e le cui conseguenze incominciavano a essere premesse nella prima epica puntata “Smoke get in your eyes”, il cui solo titolo era già un manifesto.

E cosa farà Don? Abbandonerà tutto, suicidandosi o trasferendosi in una comune di hippies a Los Angeles, travolto dalla notizia della malattia dell’ex-moglie Betty che gli farà rileggere tutta la sua vita per quello che (in buona parte) è, una vita di menzogne e promesse non mantenute, oppure la sua fuga a ovest si rivelerà essere una delle sue croniche follie da cui tornare ancora più pubblicitario di prima?

Se alcuni spettatori non sono riusciti a dare una risposta a questa domanda, beh, è perché non hanno mai visto un film di Ejzenstejn in cui il materialismo dialettico veniva tradotto nel “montaggio delle attrazioni”: due immagini con un significato proprio se accostate creeranno un nuovo significato. Ecco, Weiner ha sicuramente visto Ejzenstejn e sa perfettamente cosa sta facendo quando lega l’immagine di Don sorridente in meditazione nella comune e la famosa pubblicità della coca cola.

Se non bastasse questo potentissimo taglio di montaggio, anche qua beh, ci sarebbero ben sette stagioni precedenti che ci hanno accompagnato a questo momento, insegnandoci il linguaggio di Weiner e il suo stile al limite dell’ermetico, comunque mai banale, mai “sparato”, ma che richiede una partecipazione attenta e attiva degli spettatori, ben lontana dagli “spiegoni” delle serie italiane.

L’ultima puntata ha un canale diretto che comunica direttamente con la prima. Da una parte c’è appunto la questione del fumo, dall’altra il perfetto cinismo di Don che si affila nel corso di questi otto anni diventando sempre più tagliente. Se nella prima puntata poteva affermare che l’amore era stato inventato dai pubblicitari per vendere più calze di nylon, in quest’ultima potremmo tranquillamente aspettare di sentirci dire che la pace nel mondo è stata inventata per vendere più cola.

D’altra parte Don è l’ultra-pubblicitario, è essenza stessa della pubblicità. Un uomo che ha fatto della sua esistenza stessa una grande menzogna da quanto ha assunto l’identità del suo commilitone morto in Corea, bugiardo patologico e cinico totale per indole prima che per professione.

D’altra parte, questo è il magico mondo della pubblicità, creatore di sogni e bei sentimenti per fare funzionare un sistema economico che per sopravvivere deve venderci sempre di tutto, non importa che sia mortale, dalle Lucky Strike alla Coca Cola.